Il terremoto

Avevo un figlio, si chiamava Shams. L'avevo avuto da una delle schiave della sultana Zobeida. Una ragazza di nome Amina che mi era stata donata per festeggiare la mia nomina a gran visir.


Shams aveva la stessa età della principessa Jasmine e Harun ebbe l'idea di farli fidanzare. La mia esultanza alla prospettiva di entrare ufficialmente nella famiglia reale durò poco: ricordi il terremoto del '24? Un'intera ala del palazzo crollò proprio su Zobeida, Amina e Shams.


Ho dei ricordi piuttosto nebulosi di quel giorno. Non rammento cosa stavo facendo quando la terra iniziò a tremare. Ma so che il mio primo pensiero fu Shams. Il secondo, il sultano. Il terzo, Jasmine.


Il sultano fu immediatamente portato fuori dal palazzo. Non trovavo più Shams, e anche Jasmine era sparita.


Dovetti prendere una decisione, e decisi di salvare l'erede al trono, pregando fervidamente Allah che Shams fosse al sicuro.


Trovai Jasmine nascosta sotto il letto, in camera sua. Aveva cinque anni, o giù di lì. Quando la tirai fuori, lei si aggrappò a una colonna del baldacchino, e si rifiutò di muoversi da lì finché non fosse arrivata sua madre o suo padre. Non avevo la più pallida idea di dove fosse né l'uno né l'altra, ma dissi a Jasmine che erano nel cortile. Jasmine si lasciò trascinare via. Udii il rumore del soffitto che crollava a poca distanza da noi e mi precipitai fuori con Jasmine avvinghiata al collo, senza sapere che sotto le macerie erano finiti Shams, Zobeida e Amina.


Impossibile descrivere quello che provai quando scoprii che avevo lasciato morire mio figlio per salvare la bambina di qualcun altro, ma non ebbi tempo di affondare nel dolore, perché dovevo organizzare i soccorsi. Agrabah era ridotta a un cumulo di macerie dalle quali estrarre le persone, curarle, dare loro da mangiare e da bere, e mettere insieme un sacco di soldi per far rialzare il sultanato.


Feci praticamente tutto da solo, perché Harun era troppo sconvolto per aver perso sua moglie, troppo fuori di sé anche per pensare a Jasmine, che aveva cinque anni e capiva a malapena cosa fosse successo. Ero riuscito a recuperare un bracciale d'oro e di giada appartenuto a Zobeida e gliel'avevo dato e lei se ne andava in giro aggrappata a quel coso, con aria smarrita.


Il sultano non fece niente, se non starsene seduto sul trono o sdraiato sul letto, con gli occhi fissi nel vuoto. Ogni tanto si alzava come se dovesse fare qualcosa di urgente, diceva delle frasi sconnesse, e ripiombava subito nell'apatia. Non sentiva né le suppliche di Jasmine, né le mie, per quanto lo scuotessi e urlassi. Perciò fui io a prendere il comando della situazione.


Ero terrorizzato. Sebbene trovassi molto allettante l'idea che Harun non si riprendesse e che io, in quanto gran visir, dovessi subentrare al suo posto per lo meno come reggente finché Jasmine non si fosse sposata, sapevo che era impraticabile: avrei dato l'impressione di aver approfittato di un vecchio inebetito dal dolore per strappargli il potere. Le cose andavano così anche legalmente: il sultano poteva essere rimbambito fino a non ricordarsi più il proprio nome, ma rimaneva sempre il sultano. Perché il trono passasse di mano, doveva morire, o abbandonarlo spontaneamente. Ucciderlo in quel momento, cosa che comunque non escludevo di fare, sarebbe stato prematuro e avrebbe gettato Agrabah nel caos più di quanto già non vi si trovasse. Non c'era alternativa. Non potevo spingerlo giù. E feci di tutto per mantenere segrete le condizioni del sultano, perché se si fosse saputo che non era in grado di provvedere al sultanato, i califfi gli sarebbero saltati addosso da tutte le parti, e nemmeno io avrei potuto scoraggiarli.


Anche Jasmine entrò nella mia lista di cose a cui pensare. A un certo punto smisi di incolparla della morte di Shams (almeno credo) e mi affezionai a lei. Io avevo perso un figlio, lei una madre. Era inevitabile. È strano, se penso che poi siamo arrivati a desiderare la morte l'uno dell'altra. Le permisi addirittura di tenere il cucciolo di tigre che Masrùr, il capo degli eunuchi, le regalò per il suo settimo compleanno. Rajah mi odiava, perché, credo, a distanza di anni si ricordava benissimo che, appena Masrùr l'aveva fatta entrare nel palazzo, io avevo tentato di annegarla dentro un secchio. Era pericolosa per la bambina, era piena di pulci, e l'ultima cosa che mi serviva era dovermi preoccupare anche di una tigre che girava libera per il palazzo. Ma Jasmine iniziò a implorare e si mise anche a piangere e io dovetti farla restare. Alla fine fu meno peggio del previsto, perché una volta levate le pulci e cresciuta, Rajah era un ottimo deterrente per i malintenzionati e i califfi con manie di protagonismo. Non smise mai di ringhiarmi contro, però.


Il senso di impotenza per non essere riuscito a impedire la morte di Shams mi spinse a cercare il potere, in tutte le sue forme, in maniera sempre più ossessiva. Presto il volto di mio padre fu rimpiazzato da quello di mio figlio; lo sprone adesso era lo sguardo di delusione del secondo; poi, non ebbi più bisogno di alcuno sprone. Quella mania era diventata parte del mio essere, la mia ragione di vita. Procedevo per inerzia, e se qualcuno mi avesse chiesto perché lo facevo, non avrei più saputo cosa rispondere. Era un fuoco che alimentava se stesso, il serpente che si morde la coda. Più diventavo potente, più potere volevo. Non era mai abbastanza, io non ero mai abbastanza, un pensiero che mi teneva spesso sveglio di notte. Fu quello il periodo in cui scoprii la magia e trovai Jago. 

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